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Procida, fine Seicento: Anna affatturata dagli occhi del notaio

DiRedazione Procida

Set 18, 2022

Giovanni Romeo – Il 17 luglio del 1696 Anna Costagliola, una ragazza procidana, chiese alla Curia arcivescovile di Napoli di non prendere in considerazione le eventuali richieste di matrimonio con altre donne presentate da un notaio isolano, Giuseppe Ferrara. L’istanza fu immediatamente accolta, anche se la giovane dovette obbligarsi, come di routine, a documentare al più presto le ragioni dell’iniziativa. La versione dei fatti presentata da Anna era quella consueta, in casi del genere: a suo dire, dopo aver ufficializzato il fidanzamento con Giuseppe quando era ancora un aspirante notaio, tra loro due c’erano stati rapporti confidenziali. Se lui avesse sposato un’altra, per lei sarebbe stato molto difficile trovare marito.

Erano aspetti consueti dell’avvicinamento al matrimonio in tutta Europa: tradizionalmente il fidanzamento comportava rapporti sessuali e/o convivenze più o meno lunghe. Tuttavia nei paesi rimasti fedeli alla Chiesa di Roma pesarono sui promessi sposi le severe decisioni del concilio di Trento (1545-1563). Nei suoi decreti finali si ribadì l’obbligo tassativo, per i fidanzati, di evitare le occasioni di ‘peccato’ e di conservarsi casti fino al matrimonio. Nel caso in questione, però, né il curato, né il clero locale avevano avuto da ridire, se pure erano venuti a conoscenza di confidenze proibite intercorse tra i due.

I rapporti tra Anna e Giuseppe si erano deteriorati presto per altre ragioni: a lei era giunta voce che lui intendeva accasarsi con un’altra donna. Di fronte a una novità così devastante, la ragazza aveva fatto esaminare testimoni dinanzi alla corte del governatore, per precostituirsi prove precise, in vista della richiesta da inoltrare alle autorità ecclesiastiche. Nel frattempo Giuseppe aveva trovato anche il tempo per offendere e ferire lei e la madre, che lo avevano querelato. Non sono questi, però, i particolari più suggestivi della breve e controversa storia d’amore.

Nelle fasi iniziali di quel fidanzamento, come furono dettagliatamente raccontate ai giudici ecclesiastici da quattro vicine, c’erano aspetti di ‘modernità’ di grande rilievo. Tutto era cominciato quando Giuseppe, appartenente a una ricca famiglia isolana, aveva mostrato i primi, ripetuti segni di interesse per lei, che forse apparteneva al ceto medio. La reazione di Anna era stata a dir poco sorprendente. Accortasi del corteggiamento insistente del giovane, aveva deciso di convocarlo nell’aprile del 1696 a casa di Caterina, una vicina.

Di fronte a una mossa così audace non si era fatta attendere la reazione preoccupata e sospettosa di Giuseppe, che nel frattempo era diventato notaio, complice forse la sua familiarità con il diritto (‘Oimé, chessa mo se vuole fare testimonii et noi passaremo guai’, aveva obiettato alla mediatrice, non appena gli aveva comunicato l’invito). Alla fine, però, aveva accettato ed era andato all’inconsueto appuntamento.

Quell’atipico incontro – non capita spesso nel Seicento di imbattersi in iniziative come quella intrapresa da Anna – non poteva che cominciare con una imbarazzata domanda del giovane: Beh, cosa mi vuoi dire? La risposta di Anna era stata sincera e probabilmente del tutto inattesa per lui: Con questi occhi, gli rispose, mi hai affatturato… A quel punto, insieme incredulo ed emozionato, Giuseppe si era rivolto a Caterina, la padrona di casa, che assisteva all’incontro, pregandola di lasciarli soli.

La donna aveva obbedito di buon grado, ponendosi a distanza tale da impedirle di ascoltarne i discorsi, senza però rinunciare ad osservarne i movimenti (erano vicini all’uscio, lui un po’ fuori, lei un po’ dentro, e potevano toccarsi). Quando però il freddo le consigliò di ritirarsi a casa della nonna, costei, che a sua volta stava guardando con attenzione l’insolito scenario, le chiese spiegazioni (‘Che facevano quei due a casa sua?’) e la obbligò a rientrare. Fu allora che Caterina si accorse che la fragile relazione era sul punto di spezzarsi per sempre (‘O Anna, se tu ti trovi a maritare, maritati e dammi li confietti’, aveva detto Giuseppe, e lei aveva replicato prontamente: ‘Senti qua, mi possa battere lo male della luna se tu quando passi da qua io non m’entro’).

Andato via il giovane, Anna aveva però avvertito il bisogno di dichiarare a Caterina che malgrado la lunga conversazione ravvicinata lei non si era fatta toccare da Giuseppe, neppure col soprabito. E l’altra le aveva dato ragione (‘questi sono huomini e poi se ne vanno vantando’), anche se alla fine le aveva chiesto un compenso (‘il beveraggio’) per la sua mediazione…

Era passato poco tempo dalla clamorosa iniziativa intrapresa a Procida da un arcivescovo intransigente come Giacomo Cantelmo, esasperato dalla notizia che tutti i fidanzati locali vivevano insieme. Era il giugno del 1693, e l’ennesima, inconcludente visita pastorale fu trasformata da lui in un attacco frontale a tutti i concubini di Procida, scomunicati in blocco e invitati/autorizzati a sposarsi ad horas. Tuttavia neppure quella clamorosa iniziativa ebbe effetti duraturi. Solo 36 coppie proibite su 70 si piegarono al diktat e raffiche di scomuniche continuarono a colpire a lungo gli amori proibiti degli isolani. In ogni caso, poi, ad appena tre anni da quello scossone, Anna, Caterina e chissà quante altre donne di Procida, al di là dei castighi della Chiesa e del peso delle tradizioni, cominciavano a guardare lontano.

 

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