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Tra Stato e Chiesa. Storie di fidanzati procidani del Settecento

DiRedazione Procida

Gen 22, 2023

Giovanni Romeo – Hanno suscitato viva sorpresa in qualche lettore alcuni aspetti dell’articolo sulle vite disordinate di due chierici selvaggi nella Procida del Seicento, pubblicato domenica 15 gennaio. A meravigliarli non è stata tanto la diffusa tolleranza della Chiesa verso ecclesiastici indegni di farne parte: le dolorose vicende dei sacerdoti e dei prelati pedofili fanno purtroppo parte della quotidianità anche oggi. 

È sembrata strana, soprattutto, la condiscendenza dei rappresentanti dello Stato, la loro impotenza nei confronti di chi utilizzava con disinvoltura i privilegi del clero per fare i propri comodi, anche in un’isola ben poco disposta ad obbedire alle autorità ecclesiastiche.

Il fatto è che solo nel cuore del Settecento i contraccolpi di una cultura vivace, originale e profondamente laica come quella dell’Illuminismo, cominciarono a farsi sentire prepotentemente in tutta la penisola: la crisi e la scomparsa dei tribunali dell’Inquisizione ne furono solo il frutto più noto e appariscente.

Queste dinamiche investirono a Procida, come in tutta la diocesi, anche le controversie tra fidanzati, come è apparso chiaro nella travagliata vicenda sentimentale del chirurgo toscano ricostruita nelle ultime settimane su “Il Dispari”. Due casi capitati tra il 1771 e il 1772, a pochi mesi di distanza, sono indicativi.

Nel novembre del 1771 un uomo di Stato di primo piano, il ministro dell’Ecclesiastico Carlo De Marco, apriva un’indagine su un ricorso presentato da una vedova di Procida, Angela Rosa Florentino. Nell’istanza la donna aveva lamentato i presunti abusi commessi a suo danno dalla Curia arcivescovile di Napoli.

A suo dire, le autorità diocesane erano pronte a favorire un nuovo matrimonio di Francesco Lubrano Lobianco, il promesso sposo, nonostante che sin dall’estate del 1568 si fosse impegnato a sposare Angela Rosa dinanzi al curato di Procida. A dare forza a quell’atto ufficiale, fondamentale per la Chiesa del tempo, c’erano anche stati precisi accordi economici e una dote non disprezzabile.

Le cose però non erano andate per il verso giusto. Nel breve intervallo che intercorreva tra le pubblicazioni e il matrimonio, Francesco si era invaghito di un’altra vedova, Margherita Mattera. Aveva perciò rifiutato di sposare Angela Rosa e si era presentato in Curia arcivescovile per chiedere ufficialmente l’annullamento dell’impegno assunto tre anni prima. Le motivazioni addotte – secondo lui, la donna aveva falsamente inserito tra i suoi beni dei poderi inesistenti, era ‘sordastra’ e aveva anche l’alito cattivo (!) – furono oggetto di un’immediata smentita da parte del legale di Angela Rosa. Francesco però ebbe buon gioco nel dimostrare, con testimoni di comodo, che era proprio così.

Di fronte a quella situazione le autorità dello Stato avevano poche possibilità d’intervento, non essendo in discussione, ovviamente, la tutela della verginità. Esse si limitarono perciò ad invitare la Curia arcivescovile a sospendere temporaneamente le pubblicazioni relative al nuovo matrimonio – una richiesta inconsueta e priva di solidi appigli legali, che ovviamente le autorità ecclesiastiche ignorarono.

Così, grazie a quel favorevole insieme di circostanze, il 30 novembre 1771, ad appena due settimane dall’istanza presentata da Angela Rosa, Francesco e Margherita poterono convolare a giuste nozze. Ebbe invece esiti molto diversi un altro scontro tra fidanzati capitato pochi mesi dopo, forse nella primavera del 1772. Anche stavolta un esposto raggiunse da Procida una potente istituzione statale, la Delegazione della Real Giurisdizione, ma la ricorrente, Dianora Sodano, aveva dalla sua parte l’arma, allora ben tutelata dallo Stato, della verginità.

Oggetto della sua istanza era la promessa di matrimonio ricevuta, ma poi disattesa, da un isolano, Antonio Mancino. Da circa tre anni, quando era forse poco più di un adolescente, il giovane, definito come uno ‘squietato’ (una testa calda, diremmo oggi), aveva scambiato ‘atti confidenziali turpi’ con Dianora, illudendola con la prospettiva del matrimonio, non appena avesse raggiunto la maggiore età.

La situazione, però, si era complicata poco prima dell’esposto. A seguito della denuncia di un’altra ragazza illusa dalle sue promesse, Antonio era stato indagato, forse a piede libero, dalla Corte regia di Procida. A quel punto era stata la Vicaria, il più influente tribunale penale del regno, a chiedere ai giudici di Stato dell’isola una dettagliata relazione sul caso.

Il nuovo rapporto sentimentale del giovane apparteneva a una tipologia matrimoniale molto comune, soprattutto tra le famiglie più povere dell’isola, quella del doppio scambio (fratello/sorella con sorella/fratello: prassi definita nel dialetto isolano come «chèngio e schèngio», ancora diffusa a Procida nel primo Novecento).

Malgrado tutto, però, la Gran Corte della Vicaria convocò Antonio a Napoli, lo obbligò a rispettare l’impegno assunto con Dianora – la tutela legale della verginità violata rimaneva per lo Stato un obiettivo importante – e lo rilasciò a piede libero. Contemporaneamente dalla Delegazione della Real Giurisdizione arrivò un fermo richiamo alla Curia arcivescovile: si guardasse bene dall’autorizzare il matrimonio del giovane con altre donne, se voleva evitare un conflitto giurisdizionale. Quell’avviso minaccioso andò forse a segno: del giovane ‘squietato’ non è rimasta traccia nei registri matrimoniali dell’archivio abbaziale di Procida.

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