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A proposito di battesimi d’urgenza. Le ossessioni della Controriforma a Procida nel Sei-Settecento

DiRedazione Procida

Feb 12, 2023

Giovanni Romeo – Da tempo, per fortuna, la Chiesa cattolica non insiste più di tanto sull’obbligo di battezzare i neonati non appena vengono alla luce. Resta però confermato il principio che quel sacramento deve essere amministrato anche a chi, come i bambini, non è in condizione di comprenderne il senso. Per parecchi secoli, invece, l’obbligo di battezzarli con la massima urgenza è stato tassativo e ha provocato – anche per l’incrocio con una mortalità perinatale molto alta – sofferenze inaudite agli interessati e ai loro genitori.

La moltiplicazione di chiese dotate del presunto privilegio di garantire resurrezioni temporanee di neonati morti senza battesimo è una delle più tristi conseguenze di questa politica religiosa. I viaggi affannosi di genitori disperati verso quei santuari, diffusi in tanta parte dell’Europa cattolica e nella stessa Italia, ma solo nel Centro­-Nord, ne sono stati tra il Quattrocento e l’inizio dell’Ottocento il frutto più assurdo.

Le cassette con i corpi dei neonati morti senza il sacramento erano aperte da preti e laici truffaldini, che ne fingevano il miracoloso, provvisorio ritorno alla vita per battezzarli e garantire loro una sepoltura, ovviamente in cambio di consistenti ‘offerte’ in denaro… Inoltre, anche dove, come in Italia meridionale, non attecchirono queste orribili speculazioni, la questione del battesimo immediato di tutti i neonati fu per tutta l’età moderna una delle pagine più dolorose di tante nascite.

Nelle fasi iniziali di quel processo storico successe di tutto. Ne è un ottimo esempio un episodio straordinario, per ora unico, capitato a Napoli nell’aprile del 1599. Nel popolare borgo del Lavinaio è appena nato un bambino vivo e vegeto. In una casa affollata e in festa, mentre la levatrice è ancora indaffarata, la puerpera, dal letto in cui cerca di riposarsi, non dimentica di ordinarle di ‘ferrare’ il bimbo. La donna cerca di schermirsi, ma sa bene che cosa vuol dire quella richiesta.

Bisogna mimare la crocifissione e poi la resurrezione, far piantare da una donna vergine tre grossi chiodi intorno al neonato nudo e disteso come in croce: due accanto alle mani, uno all’altezza dei piedi. Detto, fatto: la levatrice obbedisce, invita i presenti a dire 3 Pater e 3 Ave, poi fa scavalcare il bimbo ‘crocifisso’ dagli altri figli della donna, che battono le mani e gridano felici, indicando il fratellino: è nato Cristo, è nato Cristo!

Il senso dell’iniziativa lo chiarì la madre di lì a poco, quando fu incarcerata dall’Inquisizione: era una tecnica appresa nella vicina chiesa del Carmine da alcune sconosciute, colpite dalle sue ansie di donna gravida, che aveva visto morire tre figli in tenera età. Il mistero del Cristo crocifisso e risorto si era tradotto nella Napoli di fine Cinquecento in un rituale di compromesso, all’incrocio tra magia e religione, affidato però alle levatrici, non ai sacerdoti.

Non fu quello il percorso dei battesimi a Procida, che tra l’altro proprio ai primi del Seicento perse l’autonomia della sua Chiesa e finì sotto il governo degli arcivescovi di Napoli. Una delle prime conseguenze del nuovo assetto ecclesiastico interessò proprio le nascite a rischio: per alcuni anni i corpi dei neonati morti senza battesimo furono lasciati insepolti, alla mercé degli animali e delle intemperie.

Quando nel 1606 qualcuno riferì all’arcivescovo Ottavio Acquaviva d’Aragona, nel corso della visita pastorale, quella prassi recente, il prelato diede subito ordine di predisporre uno spazio idoneo dove seppellire in futuro i neonati deceduti senza battesimo e forse chiarì ai sacerdoti che era opportuno istruire adeguatamente le ostetriche, nel caso di future emergenze.

Si aprì allora una fase nuova. Ci fu subito un aumento consistente dei battesimi d’urgenza affidati alle levatrici. Era il riflesso scontato delle paure di genitori terrorizzati dalla prospettiva di dover contrattare con il clero una sepoltura qualsiasi, nella sfortunata ipotesi che i neonati messi al mondo non superassero le prime giornate di vita.

Quell’assetto ebbe però bisogno di correttivi. Verso la metà del Seicento, poco prima che la peste del 1656 colpisse anche Procida, si chiarì che l’amministrazione del sacramento da parte delle levatrici non era sufficiente, da sola, a garantire il pieno ingresso dei neonati nella comunità dei credenti.

Ogni battesimo d’urgenza, per essere valido, doveva essere seguito a ruota dall’intervento di un sacerdote. Soltanto così, grazie alla catechesi e all’esorcismo, che ovviamente le mammane non erano autorizzate a praticare, quei piccoli nuovi cristiani potevano entrare a pieno titolo nella comunità ecclesiale. È lecito però domandarsi come mai, in casi tanto gravi, non fosse possibile convocare un prete qualsiasi a casa del neonato in crisi, per evitarne rischiosi spostamenti.

Non fu così, purtroppo, e una parte di essi morì tra le braccia delle levatrici, durante l’affannosa ricerca di un sacerdote che ‘regolarizzasse’ l’amministrazione del sacramento. Il 1669, ad esempio, cominciò malissimo: nel giorno di Capodanno e due settimane dopo se ne andarono in quel modo all’altro mondo un maschietto e una femminuccia.

Fu anche grazie a quelle tragedie silenziose che quando nel 1742 l’arcivescovo Spinelli, evidentemente scontento della distanza eccessiva che continuava ad esserci a Procida tra nascita e battesimo, ordinò di ridurla drasticamente, i risultati non mancarono: i neonati divennero in stragrande maggioranza cristiani in poche ore.

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