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Tra scomuniche e processi: la vita complicata dei fidanzati a Procida nel Sei-Settecento

DiRedazione Procida

Ago 28, 2022

Giovanni Romeo – Su sollecitazione di svariati lettori, incuriositi dal racconto della festa organizzata a Vivara nel 1716 dalle famiglie di due giovani procidani in procinto di sposarsi, torno volentieri sul tema dei fidanzamenti a Procida in età moderna. Si tratta di uno degli aspetti più vivaci della storia civile di un’isola finita controvoglia nel febbraio del 1600 sotto il governo degli arcivescovi di Napoli. Fino a quel momento i suoi abitanti, clero in testa, avevano goduto dell’ampia libertà garantita loro dallo statuto dell’abbazia di S. Michele Arcangelo.

La diretta dipendenza dell’isola dal papa aveva consentito alla comunità locale di continuare a vivere a modo suo, secondo tradizioni mai messe in discussione dalla Chiesa. Grazie alla svolta del 1600 la loro incompatibilità con i nuovi modelli di comportamento raccomandati dalle autorità ecclesiastiche fu subito evidente. Nascita, matrimonio e avvicinamento alla morte – i momenti cruciali dell’esistenza – erano vissuti in piena autonomia, in un’isola in cui l’attaccamento alle tradizioni pagane e alle pratiche magiche conviveva senza particolari problemi con il ricorso al sacro.

Fu così che cominciò per Procida una stagione tesa e cupa, segnata da un forte inasprimento degli interventi delle autorità ecclesiastiche: dalle pressioni per battezzare al più presto tutti i neonati agli scontri con i familiari dei malati gravi per convincerli a confessarsi e comunicarsi quando erano ancora lucidi. Il fronte più difficile, per il clero locale, fu forse proprio quello dei fidanzamenti.

Le lunghe convivenze prematrimoniali dei giovani, concordate con le rispettive famiglie e spesso allietate da figli, furono combattute sistematicamente a colpi di scomuniche. In una diocesi dove non mancavano comuni densamente abitati (si pensi a Torre del Greco) solo a Procida – e, ovviamente, nella indomabile Napoli – le tensioni provocate dagli ‘eccessi’ dei fidanzati alimentarono interventi così rigorosi e ricorsi giudiziari così frequenti.

Un caso del 1747 è indicativo. Si tratta di una causa matrimoniale intentata da Rosa, una giovane isolana, prima dinanzi al foro arcivescovile di Napoli, poi a Roma, per bloccare eventuali richieste matrimoniali del promesso sposo, Francesco, con altre donne. A suo dire, tra lei, figlia di un ricco macellaio, e lui, marinaio appartenente a una famiglia di ‘tartanari’, e perciò non meno benestante, c’era stato un rapporto solido, ben visto dai rispettivi parenti. Proprio grazie al consenso di questi ultimi i due si erano scambiati regali, oltre a ripetute confidenze.

Era così che ci si fidanzava nell’isola, osservava una vicina, anche se le cose cominciavano a cambiare e alcuni giovani maturavano da soli una scelta così importante (“si concludono li sponsali per mezzo de parenti o altre persone che si mettono per mezzani, non costumandosi di farsi li sponsali a faccia a faccia tra lo sposo e la sposa”).

Ma Francesco – così lo descrivono gli amici – non era per niente contento di quella sistemazione, imposta dal padre. Per lui si era trattato solo di un affare di famiglia, di un matrimonio d’interesse: una soluzione inaccettabile per un giovane ‘squietato’ come lui, dichiarano ai giudici i marinai amici, abituati ad ascoltare i suoi sfoghi continui. Ce l’aveva soprattutto col padre, il più convinto sostenitore di quella scelta. Aveva litigato con lui per quella storia anche nel porto di Genova, sulla tartana di famiglia, e gli diceva di continuo: Pigliatela tu… Talvolta aggiungeva anche, disperato: Pátemo da me che vo, io cchiù priesto me vao a fa sordato che pigliareme chessa’.

Un’alternativa l’aveva trovata da tempo: gli piaceva Teresa, una ragazza di 18 anni, orfana e di più modesta estrazione sociale, ma spiritosa e sicura del suo fascino. Lo prendeva anche in giro quando andava a trovarla, dicendogli di tornare da Rosa, che aveva una carnagione più bianca della sua… Francesco seppe aspettare. La sentenza che revocava l’impedimento matrimoniale posto da Rosa fu pubblicata il 24 ottobre 1750 e meno di tre mesi dopo, nel gennaio del 1751, poté sposare Teresa. Tuttavia la stagione delle scomuniche e degli impedimenti matrimoniali non era destinata a durare a lungo. Già agli inizi dell’Ottocento le cause legate ai fidanzamenti interrotti si diradano in tutta la diocesi, anche per le crescenti difficoltà incontrate dalla Chiesa nell’Italia intera.

Una cosa però è certa. Esaurita la stagione dei ricorsi al tribunale arcivescovile, le complicazioni dei fidanzamenti si appuntarono di tanto in tanto nell’isola su un’arma femminile tradizionale, forse mai venuta meno.  Mi riferisco a una delle più temute e diffuse fatture ‘amorose’: il sangue mestruale versato nel vino rosso al promesso sposo riluttante. Quella pratica era viva e vegeta a Procida in piena età fascista. Vi accennavano vetuste isolane – ma solo ad amiche fidate – ancora negli anni Settanta: matrimoni ‘impossibili’ (per lo più tra donne di modesti natali e rampolli di agiate famiglie) si erano sbloccati in un batter d’occhio proprio così. Le manovre in questione avevano nella tradizione procidana un nome preciso: ‘fare il bicchiere’…

 

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