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A proposito di un curato procidano

DiRedazione Procida

Ott 30, 2022

1799. La morte sul patibolo di don Niccolò Lubrano di Vavaria

Giovanni Romeo – Un singolare privilegio fu accordato ai curati dell’abbazia procidana di S. Michele Arcangelo nel 1600: quello di esercitare quell’incarico prestigioso a vita, come pontefici in miniatura. È possibile che si trattasse di una specie di risarcimento offerto agli isolani, visto che proprio quell’anno la loro Chiesa passò dalla dipendenza diretta dal papa alla subordinazione agli arcivescovi di Napoli. Non è escluso, però, che quella scelta fosse un modo per controllarli meglio, attraverso ecclesiastici attentamente selezionati.

È altrettanto vero, peraltro, che non sempre i curati perpetui poterono o vollero approfittare di quella condizione privilegiata. Il primo della serie, ad esempio, fu trasferito d’ufficio, screditato dalle trame velenose del clero locale. Altri suoi successori, invece, rinunciarono all’incarico nella prima metà del Seicento, quando a guidare la Chiesa di Procida furono per lo più sacerdoti forestieri. Una sostanziale stabilità nella loro presenza pastorale si registrò soltanto quando, nel 1660, cominciò la serie dei curati isolani, ininterrotta fino ad oggi.

L’unico che vide interrotto tragicamente il suo mandato fu don Niccolò Lubrano di Vavaria, giustiziato nel giugno del 1799 come sostenitore della Repubblica napoletana, insieme a numerosi altri concittadini. Uomo energico e influente, cugino di Marcello Scotti, il colto sacerdote isolano che finì sul patibolo a Napoli per il ruolo di rilievo avuto in quella straordinaria esperienza politica, guidava la Chiesa di Procida dal marzo del 1771.

Pur se ignoriamo tutto del processo che gli fu fatale, dalle accuse alle motivazioni della sentenza, la sua figura e il suo carattere hanno lasciato numerose, importanti tracce in svariati manoscritti. Esse consentono di arricchire l’appassionato profilo che ne tracciò Michele Parascandolo nel 1893, in un libro ancora prezioso. Ne segnalo qui alcune, relative a circostanze finora sconosciute della sua vita di curato, di poco anteriori alla drammatica fine.

Il profilo che se ne ricava è quello di un uomo tutto d’un pezzo, fermo nei suoi propositi, tenace nell’impegno pastorale, anche se impetuoso, impaziente e abituato a rispondere con asprezza ai confratelli che ne mettevano in discussione le scelte. Le loro liti continue condussero nel 1786-7 a una clamorosa rottura tra lui e 24 degli 82 componenti del Capitolo abbaziale.

La goccia che fece traboccare il vaso fu una decisione adottata dai suoi avversari nell’autunno del 1786, in merito all’itinerario del corteo che accompagnava il funerale di un sacerdote. Alcuni di essi vollero modificare provocatoriamente lo schema predisposto dal curato, ma la clamorosa iniziativa fu subito stigmatizzata da altri confratelli presenti, a lui fedeli. Ne scaturirono ‘rumori’ scandalosi, forse punteggiati da percosse reciproche, subito segnalate da don Niccolò a carico dei presunti responsabili al foro criminale arcivescovile.

A quella scelta, tipica del carattere sanguigno e litigioso del personaggio, fece seguito il 12 gennaio del 1787 una pesante risposta del gruppo di sacerdoti a lui ostili: i 24 decisero di sfidarlo apertamente. Uno di essi gli chiese di fissare una seduta del Capitolo per il giorno seguente, pur sapendo che era sabato e che pochi preti si sarebbero presentati. Alla risposta scontata del curato – meglio convocarlo il lunedì seguente – scattò una trappola, già studiata nei minimi dettagli. Servì a poco a don Niccolò la decisione, purtroppo per lui tardiva, di ordinare la chiusura della porta di accesso al campanile, nell’intento di impedire il suono delle campane, che di solito segnalava la convocazione imminente del Capitolo.

Uno dei ‘congiurati’ riuscì a suonarle e subito i 24 si materializzarono in sacrestia, dinanzi a un curato sorpreso e inferocito dalla clamorosa iniziativa, tra urla e insulti. Nel corso della tempestosa riunione non mancarono  asprezze e provocazioni. Quando, su sua precisa richiesta, gli fu comunicato il nome del sacerdote che aveva suonato le campane e don Niccolò domandò all’interessato come si era permesso di farlo, la risposta fu: “Tu chi si?”, ovvero: chi credi di essere?

A quel punto uno dei confratelli si lanciò su di lui, mentre un altro gli disse minaccioso: “Non vedi che le cervella stanno fuori del cappello?” e gli ricordò sprezzante uno scambio di battute avvenuto pochi giorni prima in sacrestia. Per effettuare un pagamento aveva estratto dalla borsa molte monete d’oro e uno dei sacerdoti del Capitolo gli aveva domandato provocatoriamente: Tieni molte doble? Al che don Niccolò aveva risposto prontamente: Mi servono per la lite che ho col clero…

A queste baruffe continue si deve poi aggiungere la circostanza che nel settembre del 1788 il curato presentò altre due istanze alla Delegazione della Real Giurisdizione, una delle quali coinvolgeva direttamente il Capitolo di S. Michele. Dopo una lunga serie di schermaglie procedurali la causa finì male per don Niccolò: la decisione finale, adottata nel gennaio del 1794, gli fu sfavorevole. È difficile precisare se già allora – un anno prima in Francia era stato giustiziato il re, mentre a Napoli la Giunta di Stato stava per stanare e condannare a morte i primi nuclei di cospiratori – il curato avesse cominciato a coltivare simpatie giacobine. Una cosa però sembra molto probabile. Nel giugno del 1799, quando don Niccolò fu giustiziato, almeno qualcuno dei sacerdoti del Capitolo avrà goduto.

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