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Ripensando alla vita contadina a Procida verso la metà del Novecento. A proposito di un suggestivo libro di ricordi

DiRedazione Procida

Mag 4, 2023

Giovanni Romeo – Nella nutrita serie di libri dedicati a Procida, in occasione del riconoscimento prestigioso tributato all’isola per il 2022, lo spazio riservato alle sue tradizioni contadine è stato indubbiamente modesto, di fatto inesistente. Il mare, con tutte le molteplici articolazioni dei discorsi e delle iniziative che lo riguardano, ha occupato inevitabilmente il centro della scena. Le attività agricole, che già hanno subito negli ultimi decenni colpi molto pesanti dall’abusivismo edilizio e dalla crisi del mercato degli agrumi, sono rimaste nell’ombra, quasi come un segmento secondario della vita locale.

Non si è andati molto al di là dell’enfasi, scontata, sul profumo e sulla bontà dei suoi limoni. Eppure la campagna ha avuto sempre nella vita quotidiana dell’isola un ruolo di primo piano. Basti ricordare che i frutti e i prodotti agricoli di Procida, a cominciare dal vino, erano venduti abitualmente non solo a Napoli e in Campania, ma in buona parte dell’Italia tirrenica, grazie all’efficace sinergia con la professionalità e il dinamismo degli smaliziati imprenditori marittimi locali.

Quanto questo schema sia riduttivo e ingeneroso verso la storia dell’agricoltura procidana ce lo illustra un libro pubblicato un mese fa e, malauguratamente, senza che l’autore, prematuramente scomparso, l’abbia potuto vedere. Mi riferisco a Procida. Tenerezza e ricordi, di Antonio Lubrano Lavadera (Leardini, Macerata Feltria, aprile 2023). È un testo dominato, ma sotterraneamente, grazie al felice connubio tra riservatezza e sincerità che lo caratterizza, da una forte impronta nostalgica. Vi si raccolgono, arricchiti da suggestivi disegni e schizzi dello stesso autore, i ricordi di un’infanzia e di un’adolescenza trascorse negli anni Sessanta, nel cuore della campagna isolana, a diretto contatto con la terra e con le sue tradizioni.

Era, ad osservarla oggi, dalla prospettiva dei tanti, procidani e non, che hanno assistito, negli ultimi sessanta anni, con un sentimento di impotente riprovazione, alle pesanti ricadute di una modernizzazione disordinata e del tutto incoerente con lo spirito antico dell’isola, una situazione ricca di fascino. Si trattava, a ben vedere, degli ultimi anni in cui la vita quotidiana continuava a scorrere a Procida lungo i binari tradizionali, marginalmente interessata ai contraccolpi negativi di un traffico ancora ridotto e di un turismo ben poco amato. Era certo un mondo carico di asprezze e di difficoltà, che l’autore ricorda molto bene e non rimpiange in alcun modo. Ne avverte in ogni caso la ricca umanità, la capacità di dare valore anche alle piccole cose.

Penso in particolare ai tanti giochi infantili, in parte irrimediabilmente scomparsi, che era insieme necessario e piacevole condividere con gli altri ragazzini del vicinato: da quelli ancora oggi noti (nascondino, gioco della campana) a quelli molto meno conosciuti (come ‘a mazza e u píuzo’, che richiedeva una certa abilità, perché bisognava lanciare il più lontano possibile, al volo, un piccolo pezzo di legno, il píuzo, colpendolo con un piccolo bastone). E c’erano anche quelli più crudeli, praticati soprattutto a danno delle povere lucertole, che l’autore ricorda con precisione, pur dolorosamente consapevole del carico di violenza gratuita che vi si condensava.

Le pagine più suggestive dell’intero libro sono però, a mio avviso, quelle dedicate al cibo. La conoscenza dettagliata e piena di tutte le buone cose che la terra offre a chi ne conosce le virtù permetteva di gustare bocconi semplici, ma prelibati e curati con grande attenzione, per esaltarne tutte le qualità. Da questo punto di vista l’accurato resoconto di come si preparava il pane e pomodoro (u culurciedde r pane e pummarole, cioè una delle due estremità tipiche dei palatoni, le forme di pane grandi e allungate caratteristiche della Campania) è uno dei ricordi più vivaci e intensi del libro.

Molto meno nota oggi, ma non meno gustosa, è poi la ricetta relativa a ‘I cardune re carcioffe ndurete e fritte’ (i germogli di carciofo indorati e fritti). Anche qui la familiarità con la terra e con i suoi prodotti è decisiva. Essa consente di trasformare due volte all’anno i germogli superflui dei carciofi in frittelle saporite e croccanti… Ancora più indicativo della capacità di valorizzare anche le risorse minime offerte dalla natura a chi la conosce mi sembra il quadretto di vita contadina relativo alla fine della vendemmia. Dopo l’ultima spremitura rimanevano, solo apparentemente inutili, i piccoli semi e le pellicine dei singoli acini. Anche quei piccoli residui, recuperati attraverso un paziente lavoro col crivello, potevano essere riutilizzati: i conigli ad esempio ne erano ghiotti. È questa la Procida che Antonio ha voluto salvare dall’oblio, ed è questa la ragione del fascino segreto di molte delle sue pagine.

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