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Pescatori e marinai a Procida: tra mestiere, religione e magia. A proposito di un libro recente

DiGiovanni Romeo

Dic 17, 2023

 Giovanni Romeo – Uno degli aspetti meglio documentati della storia moderna e contemporanea di Procida è quello del rapporto tra i suoi abitanti e il mare, in tante sue dimensioni. Una ricerca solida e innovativa come quella pubblicata nel 1957 da Giuseppe Di Taranto (Procida nei secoli XVII-XIX. Economia e popolazione) ne ha ricostruito con precisione elementi importanti.

            Meno approfondita, ma a lungo altrettanto vitale per l’economia procidana, è la storia delle attività cantieristiche e della costruzione delle vele. Esse, come è noto, raggiunsero nell’isola in età moderna uno sviluppo ragguardevole, che fu fonte di apprezzamento e notorietà per tanti suoi artigiani. Ad alcuni aspetti suggestivi e importanti di quella storia dedica ora attenti rilievi un libro ricco e venato di nostalgia, pubblicato recentemente da Enrico Galatola (Il sito del naviglio, Edizioni Fioranna).

                Il volume poggia sia sulle competenze e sulle conoscenze dell’autore, sia, e forse soprattutto, sui tanti ricordi di un’infanzia legata in profondità al mare. Erano molti, ancora nel primo Novecento, gli isolani impegnati, oltre che nella pesca e nella navigazione, in altri lavori funzionali alle attività marinare: soprattutto calafati, costruttori di vele e carpentieri. Nessuno di essi, forse, avrebbe immaginato che molti di quei mestieri sarebbero stati seccamente ridimensionati dalla modernizzazione. Perciò le pagine di Galatola sono anche un doveroso tributo a tradizioni locali quasi del tutto scomparse.

               Penso soprattutto alle attività dei calafati. Procida ne era ritenuta da sorrentini e torresi come la ‘mamma’, tanto è vero che i suoi esperti erano chiamati spesso a dare una mano nei cantieri navali dei vicini paesi costieri. Un aspetto poco noto dell’accuratezza con cui essi svolgevano un lavoro così delicato era anche nella diffusa abitudine di recarsi di persona nei boschi della Campania per scegliere gli alberi più adatti alla struttura dei bastimenti, dopo averne verificato le caratteristiche. Fino agli inizi del Novecento, inoltre, li si acquistava interi.

                 Non meno importante era l’insieme delle attività finalizzate alla realizzazione di vele, funi, cavi, cordami, e, in generale, di molti attrezzi necessari ai pescatori, ma anche ai vendemmiatori, non solo a Procida: erano prodotti richiesti abitualmente anche dai vicini centri costieri. Tra tutti gli artigiani erano però i calafati ad avere il posto di maggiore rilievo nella comunità. Era quanto si osservava nella settimana santa. Fino a metà del Novecento, fin quando cioè, prima della riforma di Pio XII, il suono gioioso delle campane preannunciava verso mezzogiorno la resurrezione del Figlio di Dio, solo i colpi delle loro mazzole accompagnavano un momento così solenne (tutti gli altri lavori si fermavano).

                 Su questi aspetti del rapporto dei procidani col mare e sulla loro viva sensibilità religiosa – si pensi soltanto alla quantità e alla tipologia degli ex voto isolani – ci sono ben pochi dubbi, anche se essi sono da tempo piuttosto affievoliti. Un altro libro dello stesso Galatola, che non è possibile discutere qui, ne offrì molti anni fa testimonianze orali non meno ricche (Quanno lèva ‘u steddòne. Al sorgere di Venere. Storie di pescatori procidani, tradizioni e canti popolari).

                Gli archivi non sono da meno. Basti qui ricordare due aspetti poco noti delle attività e della vita dei pescatori di Procida. Uno riguarda il Cinquecento. Sin da allora – in una fase storica in cui nell’isola non si è ancora avviato l’imponente sviluppo demografico sei-settecentesco – per le battute di pesca essi si avventurano anche lontano da Procida: a Sorrento, a Ponza, a Ventotene, talvolta, addirittura, anche in Calabria.

               È altrettanto indicativa, inoltre, la loro familiarità con le pratiche magiche, usuali soprattutto, anche a Procida, tra le donne. Il caso più singolare (finora unico, per quanto mi risulta) è quello di un giovane di 32 anni, Carlo Antonio Lubrano, che nel 1729 fu obbligato dal confessore a presentarsi ai giudici del Sant’Ufficio: si era convinto, chissà perché, che qualcuno gli avesse affatturato le reti. Nel 1743 accuse più pesanti raggiunsero invece Porfirio Costagliola di Titillo, un anziano pescatore della Corricella, che dispensava a pagamento i suoi poteri: usava erbe, tecniche divinatorie, suffumigi con incenso benedetto, ma anche preghiere e invocazioni alla Santissima Trinità.

                                                                      

                                                                                  

 

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