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Il caso della ristoratrice di Lodi: a mancare è stato il confine tra cooking show e realtà

DiRedazione Procida

Gen 18, 2024

Eliana De Sanctis – L’infelice storia della ristoratrice lodigiana, morta (con molta probabilità per suicidio) appena pochi giorni dopo essere diventata famosa, suscita nell’opinione pubblica sentimenti contrastanti, tra il disorientamento e la pietà.

Risulta difficile pensare che nel giro di poche ore un destino possa stravolgersi per sempre, passando da uno stato di ordinaria anonimia alla fama nazionale per un “gesto eroico” fino allo spegnersi in una fine tragica.

Solo il tempo e le opportune indagini faranno chiarezza sulle dinamiche intime di questa triste vicenda; ciò non deve rappresentare necessariamente uno spazio vuoto in cui alle parole va preferito il silenzio, ma anzi un’opportunità per porre in luce pieghe mai esplorate della società virtuale e dei cooking shows.

Per quanto possa apparire un particolare marginale, la relazione tra la smodata maniera di commentare sui social e la struttura tribunalesca degli shows più in voga è essenziale per comprendere determinate derive nel comportamento umano.

Si è portati a ipotizzare che gli haters, quelle figure mitologiche piene di rancore che imperversano sui social pronte a scaricare su chiunque la propria cattiveria, siano tali in virtù di una propria vita insoddisfacente o quasi inesistente. Pochi provano a guardare più in là di questa definizione immediata, chiedendosi se più che vomitare frustrazione gli haters vogliano in realtà replicare un modello, che non solo non viene condannato ma addirittura è legittimato da certi programmi tv.

Proviamo a fare un poco di ordine: la sfortunata signora della provincia di Lodi riceve milioni di apprezzamenti per aver liquidato, in maniera gentile ma perentoria, un fantomatico cliente che si lamenta del servizio del suo ristorante perché costretto a sostare accanto a un ragazzo diversamente abile e una coppia omosessuale. Poco più tardi qualcuno ipotizza si tratti di un falso, che quel cliente non abbia mai postato quella recensione negativa e che molto probabilmente neanche esista; sarebbe la stessa ristoratrice che, in una goffa operazione di marketing, cavalca l’onda dell’odio di genere che lei dimostra di non condividere. È l’inizio della fine: quello stesso mondo (il virtuale) da cui aveva cercato e ottenuto stima ora non ha che per lei parole di disprezzo, un peso troppo grande e difficile da contenere che prevale perfino sull’istinto alla sopravvivenza.

La protagonista è una ristoratrice, e vive in un paese (l’Italia) in cui la ristorazione è venerata come cosa sacra, gli chef godono di un potere e un’influenza sociale quasi invidiabile, tant’è che tutto sembra essere perdonabile tranne gli errori commessi nell’esecuzione delle ricette. Gli chef vengono eletti non solo a conoscitori e artigiani del cibo, ma anche a modelli morali e del saper vivere; basti pensare a programmi come Cucine da Incubo in cui lo chef non solo dispensa suggerimenti su come gestire un ristorante ma riveste anche la funzione di psicologo che scava nel vissuto e nelle dinamiche del gruppo per risanare la ferita che è causa della disorganizzazione.

L’antagonista è un famoso food blogger, cioè una figura che sponsorizza sui social cibo e locali; dimenticandosi completamente del confine tra cooking show e realtà (non si trovava nel magico mondo di Masterchef dove lo chef può apostrofare il concorrente con i peggiori epiteti e uscirne illeso), decide di sparare a zero sulla malcapitata che, anche qualora avesse commesso una scorrettezza non lo avrà fatto in cattiva fede e che comunque non possiede mezzi di comunicazione adeguati a spuntarla con un professionista della parola.

Il tragico epilogo è storia conosciuta. Il food blogger esprime il proprio dispiacere, ma non si scusa: il suo, dichiara, è stato un tentativo di stabilire la verità. E così la gastronomia diviene anche il territorio in cui si stabiliscono i dati di fatto, le certezze assolute, il concetto di bene e di male. Dopotutto, anche la povera vittima avrebbe voluto utilizzare una questione morale per attirare clientela.

Quand’è che ci ribelleremo a questa dittatura culinaria su qualsiasi altro luogo dello spirito? “Date a Cesare quel che è di Cesare, ma a Dio quel che è di Dio”, qualcuno diceva.

 

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